L’associazionismo è un tema antico che ritorna ogni tanto e che resta irrisolto. Un processo da tutti invocato che dal 1990 ha avuto un primo inquadramento normativo per poi infrangersi in una serie di disposizioni di dettaglio e di proroghe di termini a partire, nell’ultimo periodo, dal decreto legge 78/2010 fino alla legge Del Rio e all’ultima proroga. Partiamo da questa premessa per un esame sullo stato dell’arte dei poteri locali in Italia e per tracciare il percorso che andrebbe seguito nella prossima legislatura per sciogliere i nodi ancora irrisolti.
La legge 27 dicembre 2017, n.205[1], ha prorogato al 31 dicembre 2018, ancora una volta in maniera criptica, i termini [2] entro i quali i comuni con popolazione inferiore ai 5mila abitanti avrebbero dovuto assicurare l’attuazione delle disposizioni concernenti l’esercizio obbligato in forma associata delle funzioni fondamentali, mediante unione o convenzione. Si tratta dell’ottava proroga disposta di anno in anno in maniera sconfortante. Ora basta: l’associazionismo tra gli enti locali non può rispondere a logiche di mero adempimento, ma deve costituire occasione di rilancio e di riforma delle istituzioni.
È compito del nuovo Governo e delle Regioni, con il concorso e la capacità propositiva delle autonomie locali, rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’associazionismo dei comuni e mettere ordine alla confusa legislazione finora prodotta in materia. Il problema va posto in relazione all’esigenza da tutti avvertita di riforma organica dei poteri locali, dando piena attuazione all’articolo 118 della Costituzione e assicurando la stabilità dell’assetto finanziario, quale premessa indispensabile.
Fin quando si procederà nella continua rivendicazione di risorse insufficienti a svolgere le funzioni fondamentali (il numero dei comuni in pre-dissesto e in dissesto sta aumentando, specie a sud!) e a emanare leggi con la clausola di invarianza della spesa, le vere riforme si allontanano. Non è possibile continuare a pensare alle varie forme di associazionismo solo in termini di economia dei costi. L’orizzonte è ben più vasto. Si tratta di superare la polverizzazione per introdurre nuove realtà istituzionali in grado di governare il territorio con dimensioni, risorse e strumenti adeguati e moderni (digitalizzazione) nella visione culturale di un’amministrazione non racchiusa in se stessa, in una logica burocratica e autoreferenziale, bensì proiettata all’esterno verso i cittadini, le imprese, il tessuto economico e sociale da servire e migliorare. È forse venuto il momento di ripensare all’assetto delle Regioni, di risolvere il problema dell’ente di area vasta, ponendo fine al “trascinamento” delle province, di vitalizzare e rilanciare le autonomie locali ai diversi livelli in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Lo stato dell’arte: riordino dei poteri locali, associazionismo comunale, geografia istituzionale degli enti territoriali del Paese
A quattro anni di distanza dalla legge del Rio 56/2014, il quadro di riferimento dei poteri locali è ancora fortemente critico e disomogeneo e sono in molti a ritenere che occorre intervenire per ricomporlo in maniera organica nel rispetto dell’articolo 114 della Costituzione. Le città metropolitane stentano a decollare, le province sopravvivono in una situazione di debolezza sul piano istituzionale, funzionale e finanziario, l’esercizio associato di funzioni da parte dei comuni procede con lentezza e a macchia d’olio, la stessa composizione delle Regioni e la loro differenziazione è messa in discussione. Basti pensare ai recenti accordi tra il Governo e le Regioni
Emilia – Romagna, Lombardia e Veneto per l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni di autonomia previste dall’articolo 116, comma 3, della Costituzione.
In tale quadro, si colloca il problema del rilancio dell’associazionismo dei comuni. L’obiettivo fondamentale di procedere alla riduzione e alla razionalizzazione della gestione dei piccoli comuni attraverso le fusioni e le unioni segna il passo, mentre le associazioni liberamente costituite per scopi determinati continuano a realizzarsi in maniera diffusa secondo le esigenze che si manifestano nei territori e in piena autonomia. Si può pertanto osservare l’insuccesso della via intrapresa per il riordino dei poteri a livello locale, , anche se qualche importante eccezione è rappresentata da alcune Regioni che hanno legiferato forme nuove di organizzazione istituzionale e territoriale, ma al di fuori di linee – guida a livello nazionale e accentuando in tal modo le disparità.
L’attuale geografia istituzionale degli enti territoriali presenta pochi cambiamenti e permane nella sua complessità e diversificazione: 15 regioni a statuto ordinario, 5 regioni a statuto speciale, 73 fusioni (soprattutto a nord) che hanno dato luogo alla soppressione di 186 comuni, numero dei comuni sceso a 7.978 di cui circa il 70% con popolazione inferiore a 5 mila abitanti, 538 unioni di comuni, cui aderiscono 3.104 enti, 14 città metropolitane (alle dieci individuate dalla legge Del Rio si sono aggiunte Palermo, Catania, Messina e Cagliari), 96 province, di cui 76 appartenenti alle regioni a statuto ordinario (Dati IFEL e UPI).
Unioni e fusioni di Comuni: quali i maggiori ostacoli e i motivi dell’insuccesso
L’associazionismo è un tema antico che ritorna ogni tanto e che resta irrisolto. Un processo da tutti invocato che dal 1990 ha avuto un primo inquadramento normativo per poi infrangersi in una serie di disposizioni di dettaglio e di proroghe di termini a partire, nell’ultimo periodo, dal decreto legge 78/2010 fino alla legge Del Rio e all’ultima proroga. La strada finora seguita è stata quella scarsamente efficace di stabilire obblighi e gradualità nell’esercizio associato di funzioni da parte di comuni sulla base di fasce demografiche predeterminate e con l’introduzione di incentivi finanziari di modesto valore. Particolarmente difficile si è rivelato il ricorso alle fusioni e anche le unioni si sono mostrate deboli e inadeguate alla semplificazione dei poteri locali, con qualche eccezione.
Ma perché i comuni non si associano? Sono molti a ritenere che il carattere di obbligatorietà della gestione associata, stabilito con decreto 78/2010 e inizialmente riferito a sole tre funzioni fondamentali, non ha funzionato. Basti pensare che in caso di inadempienza il decreto prevedeva l’avvio di una procedura sanzionatoria che avrebbe dovuto portare al commissariamento. Da notare che, pur a fronte di una evidente e diffusa inadempienza, questa procedura non ha dato luogo ad alcuna sanzione e che a fronte delle relazioni dei prefetti, la scelta è sempre ricaduta sulla proroga, rischiando di minare l’intero processo. D’altra parte, di fronte ad un
massiccio fenomeno di inadempienza di migliaia di comuni come sarebbe stato possibile procedere al commissariamento?
Cosa abbandonare: le imposizioni centralistiche, le proroghe, la rincorsa a finanziamenti occasionali, incerti ed estemporanei
Ora basta con le proroghe, l’associazionismo tra gli enti locali non può rispondere a logiche di mero adempimento, ma deve costituire occasione di rilancio e di riforma delle istituzioni.
Finora gli ostacoli maggiori sono stati individuati, oltre che nel carattere di obbligatorietà, nella confusa ripartizione e spesso nella sovrapposizione delle competenze in materia di associazionismo tra lo Stato e le Regioni, nel numero e nella complessità delle funzioni da gestire in forma associata, nella mancanza di adeguati incentivi soprattutto in termini finanziari, nella resistenza del personale ad entrare in nuovi ambienti e in nuove logiche di lavoro, nella difficoltà di introdurre modelli innovativi di organizzazione e di gestione in forma associata. Ma soprattutto nelle fusioni hanno agito la visione campanilistica delle comunità locali e la scarsa apertura culturale da parte degli amministratori gelosi delle loro prerogative.
Occorre cambiare direzione. Dobbiamo uscire dalla provvisorietà e dalla frammentarietà dell’intervento per puntare più decisamente su soluzioni normative stabili. L’articolo 14, comma 28, del decreto legislativo 78/2010 va abrogato.
Cosa riprendere e sviluppare: le legge 158 per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni
Recentemente, nel mese di ottobre 2017, la legge 158 sul sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni avrebbe potuto costituire un’utile occasione per disciplinare anche i problemi dell’associazionismo. Ma così non è stato. Un’occasione perduta dunque, ma si può riparare. Una volta espletata la lunga procedura per pervenire alla definizione dell’elenco dei piccoli comuni, vengono ad essi attribuiti compiti di notevole rilievo. Si tratta, in particolare, della possibilità di istituire centri multifunzionali per le prestazioni di una pluralità di servizi in materia ambientale, sociale, energetica, scolastica, postale, artigianale, turistica, commerciale, di comunicazione e di sicurezza e per lo svolgimento di attività di volontariato e di associazionismo culturale. A tutto questo si aggiunge la previsione di un Fondo per lo sviluppo strutturale, economico e sociale dei piccoli comuni destinato al finanziamento di investimenti in settori di grande rilievo, quali la tutela dell’ambiente e dei beni culturali, la mitigazione del rischio idrogeologico, la riqualificazione urbana dei centri storici, la messa in sicurezza delle strade e delle scuole. A parte l’evidente sproporzione tra obiettivi e risorse (il Fondo è previsto in complessivi 100 milioni di euro in sei anni aumentato di 60 milioni con la legge di bilancio), qui preme rilevare che non è stata colta, almeno finora, l’importante occasione di
ricondurre tutte queste iniziative verso il rilancio dell’associazionismo tra i piccoli comuni. L’efficiente ed efficace esercizio dei nuovi compiti, di notevole spessore, esige dimensioni più ampie e livelli organizzativi più adeguati. La legge invece pone ancora una volta sullo stesso piano i comuni singoli o associati e, nel riprodurre la clausola ormai consueta di invarianza della spesa, si appella a tutte le istituzioni per promuovere l’efficienza e la qualità dei servizi nei piccoli comuni.
Cosa vorrei per il 2018: che l’associazionismo dei Comuni fosse ricondotto nel disegno organico di riordino dei poteri locali
Nel riprendere anche le proposte avanzate in materia da parte dell’ANCI, dell’UPI e di Legautonomie, le linee di intervento da sottoporre all’attenzione del nuovo Governo potrebbero seguire due grandi direttrici tra loro strettamente collegate:
- una nuova disciplina legislativa statale di principio , rispettosa dell’autonomia delle regioni, rivolta a riordinare le province come enti di area vasta e a regolare i relativi rapporti con le regioni e i comuni in maniera larga, ma uniforme nel territorio nazionale;
- il rilancio sul piano legislativo e operativo dell’associazionismo dei comuni , superando gli attuali schemi di riferimento e agendo su nuove basi nella logica di sistema.
In particolare:
- abrogare l’obbligo a carico dei comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (fino a
3.000 se appartenenti a comunità montane) di esercitare in forma associata le funzioni fondamentali (articolo 14, commi 28 e 31-ter del decreto legislativo 31 maggio 2010, n.78, convertito dalla legge 30.7.2010, n.122 e successive modificazioni);
- adottare politiche differenziate, di semplificazione e di sostegno dei comuni che si associano, tenendo conto delle diverse caratteristiche territoriali, economiche e sociali;
- privilegiare le Unioni dei comuni e le Fusioni, considerando le prime come un necessario passaggio verso le seconde che costituiscono un obiettivo primario;
- favorire la volontarietà dell’associazionismo da parte dei comuni con un processo di coinvolgimento da condurre insieme con le regioni e le nuove province;
- superare i limiti demografici per la costituzione di gestioni associate e individuare ambiti omogenei di natura economica e sociale, restando prevalente la contiguità territoriale;
- introdurre robusti meccanismi incentivanti finanziari (e non soltanto) in modo da creare situazioni attrattive di effettiva
In sostanza, occorrerebbe utilizzare l’associazionismo come strumento di governo del territorio puntando su una leadership adeguata a livello politico e manageriale, una leadership “creativa”, capace di promuovere nuovi modelli organizzativi e di funzionamento in risposta alla nuova governance. Ma questo vale per tutta la pubblica amministrazione.
*Mario Collevecchio è professore della Scuola di Specializzazione in Studi sull’Amministrazione Pubblica (SPISA) dell’Alma Mater Studiorum di Bologna e uno dei maggiori esperti in management e in strumenti di programmazione e di bilancio nella PA.
- Legge di bilancio 2018 – 20, al comma 1120, lett. a) dell’articolo 1
- Termini previsti dall’articolo 14, comma 31-ter del decreto- legge 78/2010, convertito dalla legge 122/2010